Partiamo da questo paradossale, ed ossimorico, sintagma “democrazie illiberali”: quali sono gli elementi che caratterizzano e distinguono uno Stato democratico? Può una democrazia essere illiberale?
La totalità dei Paesi, che si dicono democratici, è dotata di una Carta costituzionale, ossia un documento solenne di grande importanza politica e giuridica nel quale sono contenute garanzie e tutele per i cittadini, oltre che le regole giuridiche fondamentali che delineano la forma di Stato e la forma di Governo. Tuttavia, non tutti i Paesi possono dirsi, nella loro realtà giuridica e nell’effettivo esercizio dei poteri statuali, una democrazia.
Una democrazia illiberale, detta anche democrazia di facciata, è un sistema di governo nel quale, prescindendo dallo svolgersi di elezioni, più o meno libere, i cittadini sono, parzialmente o completamente, privi di effettiva tutela e i loro diritti risultano fortemente compressi. Nell’ambito del diritto pubblico comparato, a tal proposito, si parla anche di “costituzione senza costituzionalismo”, per segnalare un processo costituente, ossia l’esercizio di un potere enorme, smisurato e soprattutto libero, che, però, non è sorretto da un retroterra ideologico e filosofico, da un ideale di pesi e contrappesi volti a limitare l’esercizio arbitrario del potere costituito, che altrimenti sarebbe assoluto. La presenza di una Carta non basta dunque ad assicurare, in primis, l’esistenza di una democrazia, ed in secundis l’effettivo rispetto dei valori in essa enunciati: spesso, infatti, le strutture formali sono esattamente quelle delle democrazie “tipiche”, il problema riposa nel livello di effettività, e di valore giuridico-legale, ad esse attribuite.
Tutti i Paesi con una Carta costituzionale riconoscono come propri principi fondanti del costituzionalismo occidentale come la divisione dei poteri, l’indipendenza della magistratura, il ruolo chiave dei Parlamenti, e la conseguente legittimazione popolare che da essi deriva, l’adozione delle decisioni mediante il principio di maggioranza, il rispetto del principio di legalità, l’equidistanza del potere politico dalle confessioni religiose, ma non sempre a questa proclamazione formale e solenne segue un effettivo riconoscimento di tali principi; vi è, insomma, una evidente frattura tra il mondo sostanziale del “dover essere”, e quello fattuale dell’“essere”, o meglio ancora una frattura tra la costituzione in senso materiale e quella in senso formale.
Da un punto di vista storico, il concetto stesso di “democrazia illiberale” è molto recente: basti solo pensare che prima degli eventi del 1776 in America del Nord e del 1789 in Francia era impensabile anche il concetto stesso di democrazia, almeno come noi oggi lo intendiamo. È solo dal XIX secolo in poi che è possibile discutere di Costituzione, con l’accezione che a noi oggi interessa. Forme più o meno complete di costituzioni, infatti, erano già presenti nell’esperienza statuale europea: esse erano però considerate semplicemente un primo limite all’esercizio arbitrario del potere regio; è solo con le squassanti esperienze rivoluzionarie, ut supra, che le carte costituzionali diventano, per la prima volta, Costituzioni: documenti non solo più limitativi di un vecchio potere (quello dei Sovrani), ma che invece rappresentano la fonte di un nuovo potere, un potere orientato e al quale sono affidati alcuni compiti specifici: garantire la pace sociale, tutelare, anche giudizialmente i diritti. La Costituzione, così intesa, rappresenta la summa dei principi fondamentali di un popolo e le modalità con le quali esso accetta di essere governato: da un lato catalogo di diritti e doveri, dall’altro norme ordinatrici dell’esercizio, condiviso, del potere. È interessante notare come una Costituzione sia incompatibile con ogni forma di Stato assoluto, ma ecco che la realtà materiale ci pone dinnanzi ad un cortocircuito: le democrazie illiberali.
Da un punto di vista geografico, le democrazie illiberali del mondo si concentrano essenzialmente nel continente asiatico: circa il 60% della popolazione mondiale vive in un complesso mosaico giuridico, originato da percorsi culturali marcatamente differenti, in cui è possibile ritrovare gli ultimi stati comunisti (Cina, Vietnam, Laos), un regime militare (Birmania), un regime totalitario (Singapore), una monarchia assoluta (Sultanato del Brunei), neonate democrazie (Filippine, Tailandia, Taiwan, Corea del Sud, Indonesia, Malesia, Cambogia), teocrazie (Afghanistan e Iran) e democrazie stabili (su tutte il Giappone).
È proprio dall’analisi delle esperienze e costruzioni statuali asiatiche che è possibile individuare i tratti comuni a tutte le democrazie illiberali, e spiegarne l’evoluzione, o involuzione.
L’esistenza di democrazie illiberali, Stati che, come detto, presentano le strutture politiche tipiche delle democrazie ma che non rispettano i diritti inviolabili dei propri cittadini e non garantiscono le giuste garanzie costituzionali, si spiega essenzialmente in tre modi:
• le strutture democratiche sono state semplicemente importate da altri Stati, e dunque non sono il frutto di un processo di maturazione e interiorizzazione, ma soprattutto di libera scelta (è il caso delle ex colonie di Paesi europei)
• le strutture democratiche sono state “svuotate”, e rese solo formali per mezzo di una rivoluzione, con la conseguente instaurazione di un regime (è il caso di Singapore)
• le pressioni della comunità internazionale spesso “costringono” uno Stato a dotarsi di una costituzione, che però funge solo da “vaso da fiori” per adornare l’immagine e la reputazione di quel Paese; può invece anche accadere un caso ancor più a limite, cioè che il testo costituzionale, che dovrebbe essere l’espressione del potere costituente, e quindi frutto di ampissimo consenso e condivisione, sia invece materialmente redatto da membri di organizzazioni internazionali (cd operazioni di peace keeping, e peace enforcement)
La dottrina comparativista, nel corso della sua elaborazione, ha individuato tre elementi principali che caratterizzano una democrazia illiberale, cioè un Paese con una “costituzione senza costituzionalismo”:
• i diritti fondamentali dell’uomo sono affermati, ma non accompagnati da un idoneo apparato di garanzie
• non è contemplata una effettiva separazione dei poteri
• non è assicurata l’autonomia della politica dalla religione
Oltre a questi fondamentali elementi, l’elaborazione dottrinale, politologica e giornalistica si è arricchita di principi utili a valutare l’effettiva sussistenza di un regime democratico, che, lo ripetiamo, sono essenzialmente fattuali, più che giuridici; spesso, infatti, diritti e garanzie sono presenti nei testi costituzionali, legislativi e nei codici: il punto è la loro costante disapplicazione ed inosservanza.
Gli indici più indicativi a tal riguardo sono quelli utilizzati dal settimanale The Economist per stilare il “Democracy index” e sono:
• l'equità e la libertà delle elezioni
• la sicurezza degli elettori
• l'influenza di poteri o governi stranieri
• la capacità dei funzionari di attuare modifiche
elaborando questi quattro parametri è stato possibile classificare i Paesi del mondo in altrettante categorie, democrazie complete, democrazie imperfette, regimi ibridi, regimi autoritari.
Oltre a questi elementi, che attengono al “modo di essere” delle elezioni e dei sistemi formalmente democratici, è importante valutare anche altri paramenti, come:
• gli indici di libertà di stampa
• il rispetto dei diritti umani, civili e politici
• il rispetto della libera iniziativa economica
• il riconoscimento dei culti e delle religioni, anche minoritarie
Se dal 1992, anno della dissoluzione dell’URSS, stavamo assistendo ad una progressiva democratizzazione mondiale, accompagnata dalla fine del colonialismo di “seconda generazione” in Africa e in Asia, a partire dalla crisi del 2008, e ancor più a partire da questo biennio di pandemia da COVID-19, si sta riproponendo un pericoloso revival autoritario: le difficoltà, economiche prima, sanitarie poi, hanno minato profondamente le basi democratiche, indebolendo le istituzioni politiche, di molti Paesi, alcuni dei quali con un forte tradizione democratica, come l’India.
Che la salute della democrazia indiana sia traballante è notizia non sorprendente, ma altrettanto non rassicurante per la salute democratica a livello globale. La prognosi sembra confermata dal suo recente inserimento tra i Paesi parzialmente liberi, nome più elegante per definire i regimi ibridi (Freedom in the World 2021). È certo che la comprensione dell’andamento della democrazia globale non si può basare su un dato grezzo come il declassamento o l’avanzamento in classifica di alcuni regimi democratici. Ma certo è che i dubbi sulla tenuta democratica del caso indiano hanno un fortissimo impatto simbolico. Questo per varie ragioni.
In primo luogo, una lunga tradizione di filosofia politica, a partire da Rousseau, ci insegna che il fatto che la democrazia possafunzionare in polities molto grandi è sempre stato messo in discussione. E ancora oggi, se si vedono i dati circa la diffusione della democrazia, si nota che la maggior parte dei regimi democratici sono in Paesi medio-piccoli. Perciò il fatto che un regime democratico funzioni (o funzionasse) in un Paese di 1,3 miliardi di abitanti era di per sé considerato un miracolo.
In secondo luogo, l’India rappresenta(va) un prodigio democratico in un contesto geopolitico popolato da Stati con un curriculum tutt’altro che democratico.
Infine, pur con tutte le imperfezioni del caso, il regime democratico indiano era considerato da alcuni, almeno fino all’avvento del populismo di Modi, un esempio di democrazia consensuale. La categorizzazione, introdotta dal politologo olandese Arend Lijphart, indica un modello che riesce a creare consenso attorno al gioco democratico, nonostante la presenza di forti cleavages nella società (etnici, linguistici, religiosi, …), grazie a strumenti come: federalismo, presenza di corti costituzionali per la tutela dei diritti, sistema multipartitico, bilanciamento tra esecutivo e legislativo e governi di grande coalizione.
Fattori come la buona partecipazione elettorale (anche a fronte dell’attivismo politico di molti gruppi castali), l’importanza dei partiti regionali, una magistratura ma anche una stampasufficientemente indipendenti rispetto all’esecutivo e una società civile dinamica hanno reso l’India un buon esempio di successo democratico.
Già da tempo però le incrinature nella democrazia indiana iniziavano a rilucere: la tentazione del potere politico di limitare la stampa, l’atteggiamento spesso eccessivamente securitario della magistratura e delle forze dell’ordine (con conseguenti episodi di arbitrio e violenza), la difficile situazione dei diritti delle minoranze musulmane. Una parentesi a parte, anche visti gli sviluppi più recenti, va aperta proprio su questo punto. Le violenze contro le minoranze musulmane da parte del fondamentalismo indù (e l’atteggiamento piuttosto conciliante da parte dei tribunali nei confronti di veri e propri pogrom) non sono fatti recenti. Per citare una delle tragedie più note, basti pensare alle violenze del Gujarat nel 2002: un incendio ad un treno di passeggeri Hindu avvenuto a fine febbraio fu trasformato in una campagna di violenza contro la minoranza musulmana, accusata di aver cospirato con l’intelligence pakistana per provocare l’incendio. Le violenze contro la minoranza interessarono anche donne e bambini con omicidi e stupri, per un totale di 790 morti di religione musulmana e 230 moschee distrutte.
La pandemia, come suggerito da alcuni analisti, sembra aver solo aggravato la situazione già problematica della democrazia indiana. In effetti, il Covid-19 ha fornito la finestra di opportunità per la sospensione dei diritti e delle garanzie all’interno di numerosi contesti già sull’orlo del declino democratico. Fra gli elementi inquietanti del caso indiano, riportati dallo studioso Mukherji in un numero uscito su Journal of Democracy, risultano:
- l’indebolimento del ruolo del parlamento, visto che il lockdown non è mai stato discusso dall’assemblea
- l’introduzione di una app, Aarogya Setu, per il tracciamento del Covid-19 che ha destato non poche preoccupazioni circa come i dati da essa raccolti saranno condivisi; ancora più preoccupante visto che l’uso, seppur volontario, è stato richiesto da vari datori di lavoro e istituzioni
- Modi, primo ministro indiano, ha creato PM CARES un ente finanziato tramite donazioni che secondo alcuni analisti, essendo associato fortemente alla sua persona potrebbe essere un modo per evitare lo scrutinio pubblico circa le modalità attraverso cui i fondi sono spesi, ma sarebbe anche un modo per incentivare chi vuole entrare nelle grazie del primo ministro ad effettuare donazioni
- si assiste ad una generale centralizzazione delle politiche pubbliche, anche se la salute è una competenza del livello statale, non di quello federale. Ciò ha peggiorato sia il federalismo indiano sia la risposta pandemica, anche visto che il governo centrale si è impegnato in maniera limitatissima a supportare economicamente gli Stati federaliper la lotta al virus
- anche la Corte Suprema indiana, da sempre pilastro di diritti umani e democrazia nel Paese, sembra entrata in “lockdown”. Questo, secondo alcuni, risponde alla recente tendenza della giurisprudenza della corte, sempre meno incline a sanzionare il governo. Basti ricordare che casi importanti come il Citizenship Amendment Act del 2019 (si veda sotto) e quello sulle norme che hanno abolito lo status speciale di Jammu e Kashmir non hanno trovato udienza presso la corte.
- secondo l’indice di libertà di stampa di Reporters Without Borders del 2020 l’India è stata tra i dodici Paesi asiatici che hanno destato maggiori preoccupazioni. Modi si è rifiutato di tenere conferenze stampa formali e aperte al pubblico dal 2014. Il 24 marzo 2020, sei ore prima del lockdown, ha inaspettatamente convocato una video conferenza, principalmente atta a mettere pressione sui giornalisti affinché promuovessero un’aurea di positività in un periodo di crisi
Uno dei casi più eclatanti di palese violazione di diritti umani durante la pandemia è quella derivante dalla negligenza indiana nel considerare la situazione dei lavoratori migranti che ogni giorno si spostano a piedi o in bicicletta tra Stati più poveri e più ricchi. Il governo indiano a metà maggio dello scorso anno è intervenuto prevedendo treni speciali per riportare i lavoratori in questione presso i propri stati più poveri. La diretta conseguenza è stata un aumento significativo della curva pandemica in questi Stati, dove le infrastrutture sanitarie sono già precarie. Ad esempio, a luglio 2020 l’80% dei casi Covid riportati dal governo di uno di questi Stati, il Jharkhand, riguardava lavoratori migranti. A questo si aggiunge la quasi assente sicurezza sociale per questo tipo di lavoratori. L’esempio riportato da Mukherji è eclatante: una donna che normalmente guadagnerebbe 100 $ al mese, in tempo di pandemia riceverebbe un pagamento di soli $6,60 secondo il piano del governo.
La pandemia ha aggravato anche la situazione dei diritti umani e dell’autonomia nella regione del Kashmir. Senza entrare nelle controverse questioni geopolitiche che riguardano il territorio, basti ricordare che già prima della pandemia, nel 2019, la linea seguita da Modi nei confronti dello stato di Jammu e Kashmir era stata quella semplicemente, di cancellarne l’autonomia, garantita dalla stessa costituzione indiana, e abolirne il parlamento. Un anno dopo, la pandemia ha rappresentato lo scenario perfetto per distogliere l’attenzione dalle violenze inflitte alla popolazione: è stato imposto un coprifuoco militare e il taglio delle comunicazioni (da sottolineare di nuovo: in piena pandemia). In aggiunta, una nuova legge sul domicilio (legata all’ormai tristemente famoso Citizenship Amendment Act di cui sopra) ha permesso a tutti gli indiani di trasferire la propria residenza in Kashmir in un sottile processo di cancellazione culturale che rende paradossalmente difficile agli abitanti dello Stato ottenere la cittadinanza del proprio Paese. Il controverso provvedimento (da alcuni assimilato alle infami Leggi di Norimberga naziste) facilita l’ottenimento della cittadinanza indiana ad alcune minoranze religiose ma non ai musulmani.
Decretare la morte democratica (o anche la prognosi di declino democratico) di uno Stato è cosa sempre delicatissima tuttavia, senza spingersi in valutazioni rischiose, il caso indiano ci dice che a doverci preoccupare non è solo la resilienza del nostro sistema scolastico o sanitario ma anche e soprattutto quella delle nostre democrazie
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