Logica dell'esasperazione. Saggio su un'upupa
Aggiornamento: 5 gen 2022
A mia madre
Della mia infanzia ricordo il tempo. Capirete come in questo modo io stia supponendo il tempo al tempo o, inversamente, incastrando l’uno nell’altro. E per rendere possibile una tale sovrapposizione - definiamola impropriamente così per sfuggire alla confutazione della gerarchia tra aion e kronos - mi rendo conto che nel mio ricordare c’è un udire. È un ritmo folle, poliritmato, quasi onirico. Non è un metro di giudizio ma una condizione di esistenza. Accostare le immagini del ricordo al ritmo è naturalmente un procedimento fasullo. Più che di ritmo in senso lato dovremmo parlare di pulsazione. Eppure proprio i greci ricondurrebbero questa pulsazione al ritmo, stavolta come limite, quasi come una determinazione (Archiloco, rysmòs). Il ritmo è ciò che limita e sostanzia il ricordo. Alle immagini non basta il colore, perchè la terza dimensione, il punto di fuga della prospettiva, è della pulsazione che si fa ritmo alla greca. E se c’è sussistenza, il ricordo diviene finalmente spugna emozionale, transizione da segno a simbolo. La carica emozionale conduce alla riproducibilità, motore della ripetizione. Vedo e ri-vedo col pensiero.
Ricordo l’upupa della domenica mattina, fin troppo ritmata. È il caso di ridurre la questione a concetti chiave: ripetizione, ritorno, soggettivazione. Partiremo dall’inizio.
La ripetizione non è generalità scrive Deleuze. Ci permettiamo di aggiungere, accelerando la riflessione, che la paradossalità della ripetizione è nella sua sacralità. Ma la sacralità in questione è complessa, quasi come uno tsunami che divora la spiaggia. Non c’è affatto una rilegatura del riproducibile, ma una causalità per il riproducibile. La complessità è nella caratteristica frattale della produzione, di quest’onda che non distrugge ma ingloba. E se nella causalità dovessimo rintracciare un qualche automatismo, alleggeriremmo la nostra investigazione rimandando alla psicoanalisi. Ciò che è ripetuto non è ascritto a una rilegatura del generale. Non c’è da fare confusione tra piano d’immanenza e la cavità ad esso immanente, se per assurdo volessimo parlarne al singolare. Ritornando alla sacralità, la questione è interessante e risolverebbe l’imbarazzo del malinteso (ripetizione e generalità) nella superficialità. Ripetere è il più struggente degli atti e la più aspra delle scelte. Bisogna compiere un furto, strappare ciò che non ci appartiene per poter fondare ciò che ci genera. E l’uso della potenzialità (poter fondare…) è perfettamente in linea con la processualità della soggettivazione. Emerson parla di overman in chiave etica, e il passo è breve dall’antropologia al concetto. C’è un ritorno che, sin dall’inizio, non mette a rischio il compimento del ritorno, ma l’integrità della condizione di partenza inevitabilmente affettabile. La ripetizione non è generalità perchè il movimento non potrà mai significare l’identità statica, ma l’identità come processo di mutamento (affezione, affecter) e differenza. Ci basti pensare a John Cage e al suo 4’33’’ (quattro minuti e trentatré secondi di silenzio) come rappresentazione del processo di mutamento. L’identità non è statica ma nomadica, pronta a ritornare in sé con una differenza acquisita. Il silenzio è ripetizione ma in un contesto che diviene esso stesso il differenziale. Come dicevamo, è un ritorno all’onda, motore interno del mare che si fa tsunami, non come colpevole né come giustifica, ma come divenir-soggetto. Lo tsunami nel ritornare calmo non potrà non ripetere lo tsunami nella quiete del mare a riposo. Cullare un bambino mentre dorme non ne cancella il pianto. È la schizofrenica danza del divenir-soggetto, volendo continuare erroneamente ad usare il singolare. Il plurale renderebbe certamente più colore e dignità alla nostra scenografia teoretica, oltre che evitare la possibile aporia di cui potremmo essere accusati. L’aporia, capirete, si manifesta nel nostro azzardato tentativo di voler dimostrare il caos con la linearità linguistica della metafora, di questa esposizione d’arte che stiamo cercando di mostrare.
Pensiamo all’argomento degli ermeneutici: dal viaggio non si fa esperienza dell’alterità che ci si manifesta, bensì del fatto che siamo alterità tout court. Non è una con-venzione spaziale ma temporale. Il teatro di Artaud ne è un esempio. C’è una sovrapposizione esasperata, al confine tra segno e simbolo. Gli attori sono segno, la scenografia riassembla (homoiosis) e simboleggia il contesto, mentre lo spettatore, significante primario, genera l’opera nella positività dell’atto poietico, nella più completa differenza. È patafisica, se anacronisticamente ci sarà concesso l’accostamento (da epimetafisica, ciò che è accanto a ciò che è dopo la fisica).
La ripetizione è esasperata. L’etimo è chiaro, perchè la preposizione ex (es-asperazione) indica il fuori. Ciò che per natura è fuori è aspro, ma qui assistiamo ad una doppia affermazione che potenzia la positività. L’aspro è sovrapposto, è la mancanza di connessione, di adeguazione, di dialogo in senso lato. È aspro ciò che non comunica (ancora), ciò che non è generale, ciò che non è sintomo di generalità. Il ladro, colpevole senza giustificazione del furto, è l’aspro, caratteristica primaria della ripetizione. Ma ciò che è aspro non solo ruba, ma rapisce, trascina con sé l’omologazione dell’eufonia per frammentare, non distruggere, l’armonia. La ripetizione è una armonia dissonante nel pronunciare la settima, aspra e sovrapposta e assorbente in quanto empatica. Potrà apparire criptico, ma la transizione armonica, acusticamente, risente del contesto sonoro più di quanto si immagini, e l’aspro, espresso nel dissonante, esprime un divenire-sonante per contesto. Ci basti pensare, per il momento, al significato delle appoggiature nell’opera di Mozart. Tensione e risoluzione giocano nel campo della risoluzione, significandone il soggetto generale (tonalità) nella sua ripetizione differente (modo). Quell’onda divenuta tsunami, pregna di potenza, non rompe l’armonia del suolo, ma la ingloba frammentandola ed evidenziandone i piani. Ma se la tonalità dovesse mai rivendicare un propria gerarchia interna, in quel preciso istante il nostro esempio perderebbe compatibilità con la teoria di cui ci facciamo divulgatori. La gerarchia ha un profondo rapporto col presente. La gerarchia non sussisterebbe senza un presente. È come cercare di inquadrare il dettaglio della gomma di uno pneumatico in corsa. La gerarchia è visibile solo interrompendo il divenire, per un istante dilatato nell’ora. La gerarchia è un fotogramma, e la tonalità sembrerebbe il piano di sussistenza, d’immanenza in senso lato, della somma dei presenti. Un tale procedimento non potrà mai essere affiancato alla ripetizione, perché nella sovrapposizione non c’è presente, ma ritorno. E un simile ragionamento confuterebbe la gerarchia in qualsiasi momento della differenza (ma non dell’identico). Il ritorno è ben diverso dal ritornello, come lo stato-di-transizione dallo stato-di-condizione. Da un lato l’apertura, dall’altro la chiusura. Una retta e un punto - con le dovute considerazioni di con-sistenza.
Immaginiamo il caso del puntinismo (pointillisme). Signac gioca con la ripetizione esasperata. C’è una esperta consapevolezza che investe il passaggio da segno a simbolo, da punto (point) a colore; e non perchè il colore non sia già un elemento del segno, ma semplicemente perchè il colore proprio dell’opera è altro rispetto a quello del punto. Affacciamoci dalla prospettiva del punto. Per poter divenire simbolo deve poter essere ripetuto, ovvero contestualizzato, conservando le proprie caratteristiche (ecco, ancora una volta, perchè la ripetizione non è generalità) con cognizione del mutamento, che non è modificazione del segno ma espressione del simbolo. L’opera si soggettiva grazie al ritorno-al-simbolo. È una navigazione accanto ai segni e alle spalle del simbolo (è noto, tra l’altro, che Signac fosse un appassionato di navigazione, dettaglio da non trascurare per una completa analisi delle sue opere).
L’esasperazione è cavità, intesa al plurale, per differenza e per immanenza. Sarà capitato a chiunque di ascoltare un brano musicale partire in levare, condizione che comporta un troncamento dell’inizio della prima battuta, generando un ritmo acefalo. Il furto è nel movimento, nel rapimento ritmico e nella mancanza di una costante identitaria che è scavalcata dal divenir-soggetto dell’opera. È il momento di transizione da segno a simbolo: possibile-in-atto.
Tale contesto apre ulteriormente al martellante verso dell’upupa.
L’upupa non è il fuoco della nostra parabola. Ad esserlo siamo noi ascoltatori che diveniamo soggetto grazie alla ripetizione. La dimensione propagante del segno che diviene simbolo ci assorbe nell’armonia di uno strazio che non si collega allo stato d’animo dell’animale, ma ci empatizza in quanto in-levare. Empatizza con cosa? Nel nostro caso con noi stessi, con una proiezione pre-significante. Guattari parla di semiotiche presignificanti a componenti ritmiche. La nostra upupa ne è un superamento, perchè è a tutti gli effetti una semiotica postsignificante, esattamente dove la psicanalisi parlerebbe di après-coup. È il collasso del ricordo, il significante che rende la gestualità una pulsazione. Non conosciamo ma udiamo. È una pulsazione che de-limita. La sacralità ci assorbe, rubando la testa dell’armonia divenuta acefala. Ma se l’aspro è un accordo di settima, fonte della ripetizione, la risoluzione diverrà l’aspro dell’aspro, ovvero il dolce. Il divenire-upupa, il furto, verrà risolto nel ritorno, appunto, in noi. Ed ecco la soggettivazione. Il ricordo è un processo che ha a che fare con ciò che è fuori più che con ciò che è dentro. È un processo di adeguazione. Ma adeguazione a cosa? Ci adeguiamo a noi stessi, riconoscendo la nostra nuova traccia nella traccia che ciò che è fuori ha lasciato in noi. Riconosciamo la traccia della novità prima ancora di essere cambiati, prima ancora di essere ri-tornati, per poter assimilare il nostro stesso differenziale. Viviamo un processo che ci spinge in avanti con uno slancio alle spalle. La ripetizione è il segno, l'esasperazione è il simbolo e la differenza è il significato.
Il conatus diversificandi è già stato detto.