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UN VIAGGIO SULLE SPALLE DI GIANO BIFRONTE: RELAZIONALITÀ E IN-CONTRO NELLA CONTINGENZA.

Un viaggio intrapreso alle porte del nuovo anno e un tentativo di interpretazione di un’opera. Seduta sulle spalle di Giano Bifronte, volgo lo sguardo al passato e al futuro. Nelle orecchie risuona una canzone, il movimento e l’anelito scorrono tra i suoi versi.


Ti invito al viaggio

In quel paese che ti assomiglia tanto.

I soli languidi dei suoi cieli annebbiati Hanno per il mio spirito l'incanto

Dei tuoi occhi, quando brillano offuscati. Laggiù tutto è ordine e bellezza,

Calma e voluttà.

Il mondo s'addormenta in una calda luce

Di giacinto e d'oro.

Dormono pigramente i vascelli vagabondi Arrivati da ogni confine

Per soddisfare i tuoi desideri...

Ascolta nel fondo dell'ombra

Una visione ti viene incontro

Un giorno senza tramonto

Le voci si faranno presenze

Invito al viaggio, (Fleurs, 1999).


Così canta il visionario artista Battiato, seguendo le parole della traduzione italiana dell’opera baudelairiana(1), conseguita dal filosofo Manlio Sgalambro.

Perché iniziare con una canzone? Perché iniziare con questa canzone?

Perché racchiude dentro di sé in potenza quanto il titolo esplica in atto. Perché in essa vi è il perfetto connubio tra poesia e approccio filosofico. Ivi, con “poesia” intendo il significato “classico”, di greca memoria, secondo cui la ποίησις è atto creativo, creazione meravigliosa che causa τὸ θαῦματον, “la meraviglia”.

Un pronome “Ti”, indicante la presenza di un interlocutore, al quale si rivolge un altro soggetto. L’ individuo invita il suo interlocutore a viaggiare (dal latino peregrinor, “viaggiare”), a compiere un viaggio (dal latino peregrinatio, “viaggio”) “in quel paese che (gli) assomiglia”.


Si può immaginare la scena. Alcuni possono sicuramente figurarsela nella mente e confinarla nei suoi meandri. Altri, invece, possono sognare che sia accaduta realmente, in un tempo e in un luogo indefiniti. Un tempo e un luogo pregni di istantaneità, dilatati in quell’attimo presente.

L’ umano, viator nella fattualità contingente, si ritrova protagonista di un viaggio verso quel luogo che gli è somigliante. Vi è relazione e relazionalità tra i due, hanno le stesse caratteristiche. I soli di quel paese sono “languidi” e hanno “l’incanto”, così come gli occhi dell’interlocutore si presentano allo spirito di colui che parla.

“Ti”, “a te”, il pronome del confronto, dell’in-contro, della vicinanza. Vicinanza: termine tanto evocativo quanto fragile. La vicinanza, nave peregrina, viene continuamente sballottata dai venti accidentali. Ma l’animo dell’uomo ha l’ancora della speranza, che si radica nei fondali più profondi.

Quando ci si rivolge a qualcuno con il sopracitato complemento, si presuppone che sia accanto a noi. Ci si relaziona con l’altro. Si è soliti proiettare le nostre impressioni sull’altro, e inscriverle così nell’altro (come suggerito dall’espressione “per il mio spirito”). È solo per lo spirito dell’io lirico che le fattezze dell’interlocutore sono a quel paese rassomiglianti. Nel carattere relazionale del confronto, ci si approccia all’alterità.

“Laggiù”, in quel luogo che si dipana davanti alla vista di colui che canta e del soggetto che ascolta, tutto ciò che esiste è “ordine”, “bellezza”, “calma” e “voluttà”. Sembra che i versi della canzone delineino una climax ascendente a livello tematico, per quanto concerne il campo del significante. È singolare la loro posizione chiastica. Nella “voluttà” si specchia “l’ordine”, nella “calma” si specchia la “bellezza”, e viceversa. I primi, “la voluttà” e “l’ordine” possono essere intesi in opposizione, l’uno contro l’altro. L’ordine, che presenta insiti i significati di “regolarità” e “disposizione armonica”, rischia di essere sottoposto alla forza dirompente della voluttà, di quel turbinio di piaceri capaci di perturbarlo. La soluzione si ritrova nel legame che si crea tra i sintagmi “calma” e “bellezza”. Il possibile timore che l’ordine di quel paese possa essere corrotto si esaurisce nella visione estatica della bellezza, dell’equilibrio in cui l’ordine e la voluttà si ritrovano.

I vascelli “dormono”, ma fino a un attimo prima erano “vagabondi”. Il loro statuto ontologico è cambiato: prima solcavano i mari del desiderio, vivevano il mōtŭs (movimento) e adesso riposano in quiete.

I desideri, adesso placati, erano il loro moto e il loro fine.“La natura caparbia del desiderio(2) ha l’ardente necessità di essere saziata.

La studiosa Lidia Palumbo, focalizzandosi sui passi del dialogo platonico Repubblica, rispettivamente 437e-438b e 439a, enuclea un’altra caratteristica che, oltre alla caparbietà, si confà al desiderio: la sua natura relazionale, in quanto il desiderio (ἐπιθυμία) è “sempre desiderio di qualcosa”.(3)

Qual è l’oggetto del desiderio nel componimento?

Non si sa. Non è specificato. Potrebbe essere semplicemente colui che canta. A me piace vederlo come il desiderio di conoscere che è insito nell’esistenza.

Il quadro descritto, il dialogo e le dinamiche relazionali, possono essere esplicativi di un attimo vissuto nella sua eterea e meravigliosa pienezza. Quel paese, mèta del viaggio, diventa punto di arrivo e punto di inizio. Nel paese vi è l’essenza dell’interlocutore.

E poi il salto in una nuova situazione, in una nuova visione. Non mi sembra alcunché di infausto.

C’è cambiamento, c’è movimento e dinamicità. Si va (da eo, “andare”) verso eventos novos, “nuovi avvenimenti”


Note.

(1) Charles Baudelaire, L’Invitation au Voyage in Les Fleurs du mal, 1857.

(2) L. Palumbo, Eros, Phobos, Epithymia. Sulla natura dell’emozione in alcuni dialoghi di Platone, Loffredo, Napoli 2001, p.23.

(3)Ibidem.

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