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Andrea Mennitto

Dal 2000 e oltre!

Avete presente quel momento della vita in cui ci si sente invincibili? Vi ricordate quando avete pensato di poter cambiare il mondo, che tutto vi fosse dovuto e avevate una forza inesauribile fra le mani che con gli anni poi è andata sempre assottigliandosi? Erano i “migliori anni”, quelli della vita vissuta a pieno senza freni e senza regole. Soggetto caratterizzante di quest’ultimi era la forza dell’entusiasmo. Entusiasmo che è stato notevolmente inibito dalla corrente pandemia, che, non tanto il sacrificio di restare a casa ci ha chiesto, quanto la rinuncia obbligata ai rapporti sociali, quelli autentici, quelli per mezzo dei quali ci si può guardare negli occhi e capire lo stato d’animo, la convinzione o l’incertezza del proprio interlocutore. Che ci ha privato di poter comunicare attraverso un sorriso ma che, come forse mai nulla era riuscito a concretizzare, ci ha dato una convinzione comune di base: siamo tutti frangibili e comuni mortali. Però ci ha dato, forse, anche quella grinta di godersi ogni attimo della vita e ci ha fatto promettere a noi stessi che ogni giorno lo avremmo vissuto a pieno. Quell’entusiasmo, io lo sto vivendo in questi anni, con i miei coetanei. In quest’epoca frenetica, dinamica, che corre e ti chiede di andargli dietro, viviamo quell’energia inesauribile di fare, di pensare, di non fermarsi mai. Perché la nostra concezione di “uomini di mondo” è stata sempre quella della strada. La strada quella vera. La strada delle interazioni sociali con “il mondo dei grandi”, con le donne, con gli anziani fonte inesauribile di dolcezza, di cultura e di insegnamento, perché siamo sempre stati consapevoli anche di conoscere poco, e chi, se non gli anziani, può mai insegnarci cos’è la vita davvero?

All’asfissiante peso del mondo che ti obbliga a trovare un lavoro, a comportarti in un certo modo e a seguire canoni e schemi del buon cittadino, ma anche del buon figlio, abbiamo sempre dato la costante risposta di una necessità istintiva e straripante che era quella di interagire, di essere vivi nel mondo in maniera autentica. Questo è stato per me, ma mi sono sempre chiesto per quale motivo non fosse così anche per altri. Dunque per scongiurare il dubbio sulla mia stranezza (o stranezza altrui), ho chiesto ad un gruppo di persone cosa si contrapponesse fra loro stessi e ciò che desiderano davvero e allo stesso tempo ciò a cui ambiscono. Fra le risposte demenziali, le risposte riguardo l’amore, la risposta forse più notevole e allo stesso tempo problematica è stata: “i soldi”. Capite bene, adesso, il progresso, inteso come pratico ma anche ideale, a che livello di pensiero, di definizione di felicità, ha portato la mia generazione. Questa è una risposta che tange la concezione di felicità che si è andata sviluppando sempre di più nell’epoca del consumismo. Per essere davvero felici, perché implicitamente di felicità si parla, serve il denaro, la pecunia, la “roba”. Perché? Perché mi sembra di aver compreso che oggi è importante, ma non fondamentale, per un giovane, indossare una marca importante, avere un telefono di una certa caratura, avere intasca una disponibilità non indifferente ma non per una questione di apparenza, nessuno vuole apparire ricco alla faccia dei poveri, ma per una questione di rampantismo, di arrivismo e di possesso. “Io ho”, “Io ho più o pari a…”. Vi è una netta corsa all’avere, all’accumulare ma che di ambizioso mi sembra avere ben poco. È il mondo del possesso e del consumo. Non credo ci sia una scusante ma è possibile dare una spiegazione del contesto in cui ci troviamo ed una risposta ai boomer, che in maniera spregiudicata tendono a rivendicare la loro di giovinezza in confronto a quella degli anni duemila. “Ma che ne sanno i duemila?” (dicono). I boomer che hanno vissuto gli anni d’oro, il boom economico, i Beatles ed i led Zeppelin, i drive in, la lira, i pantaloni a zampa d’elefante e i figli dei fiori, che con una aneddotica smodata puntano il dito a questa “generazione di fannulloni, schiavi della tecnologia, maleducati, arroganti, senza rispetto che all’asilo non sono stati fatti inginocchiare sui ceci”. Ma sappiamo bene tutti, e credo che lo sappiano anche loro, l’impossibilità di fare una mera considerazione senza contestualizzarla nell’epoca in cui essa è ambientata. Viviamo l’epoca della globalizzazione, del progresso, del prevalere di una misura prettamente materialistica e che forse ha dimenticato la sensibilità dell’uomo. Il punto principale però è che questo mondo del “Dio denaro” ce lo avete fatto trovare voi, i vostri padri, i vostri nonni. Noi vi ci siamo solo trovati, abbiamo pattuito con esso un compromesso, vantaggioso e non, affinché in esso avremmo potuto vivere e crescere, formarci e fare il nostro progetto di vita, che è quello il cui crediamo davvero e da quale mai qualcosa di materiale ci dovrebbe separare. Noi ci siamo adattati ad esso e purtroppo spesso abbiamo preteso che anche il mondo si adattasse a noi. Ma fidatevi, siamo meglio di quanto vi sembra. Siamo entusiasti e ci agitiamo ancora, con forza e con coscienza. E sono sicuro, che un giorno, fra 10, 20 anni ci direte che siete fieri di noi. Perché io sono convito che riusciremo a fare tesoro delle situazioni, delle opportunità e delle condizioni in cui ci siamo trovati seppur spiacevoli e non fiorenti. E forse, forse, riusciremo a fare di esso anche un mondo migliore. Consideratela una promessa, un patto tacito, ma noi ci proveremo.

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